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giovedì 19 maggio 2016

La rabbia.

Il mio lavoro è un casino. Premessa necessaria. Col fatto che è un casino intendo dire che è un casino. Fare il mio lavoro vuol dire trovarsi in situazioni tesissime, drammatiche, a forte impatto emotivo. Avete mai preso in mano il cadavere di un bambino di quattro anni accoltellato dalla madre? Io sì. E ho pianto, perché lì non c'è distacco professionale che tenga, gente. Ogni tanto qualcosa ti tocca, e tu vacilli. Ti chiedi se vuoi davvero continuare a farlo. A volte ti chiedi se PUOI, continuare a farlo. Se ne vale la pena, continuare a farlo. Vita sociale a puttane, bioritmi sfasati da multiple notti di lavoro consecutive, salari ignobili, malati deliranti che ti graffiano, mordono e picchiano mentre cerchi di continuare a farli respirare, gravose responsabilità, grande carico di lavoro, dato che dobbiamo sostituire in tutto anche le figure di supporto che sono ovunque scarse o inesistenti, zero prospettive di carriera. Domani, a quest'ora, avrò finito di trascorrere in rianimazione il mio settimo giorno di lavoro consecutivo, 56 ore totali. Il mio contratto dice 36.
Ho 39 anni, mal di schiena, male alle ginocchia, sono insonne, mangio spessissimo una sola volta al giorno, per la gioia della mia gastrite e delle mie due fottute ulcerette esofagee. Quando sei dentro ad un frullatore è inutile cercare di mettere ordine. Mangio quando ho fame, dormo quando ho sonno. Se sto lavorando ed ho sonno, invece, caffè. Tanto. Sempre sia lodato.

Ecco, questa era la premessa: sono stressato (sempre), stanco (spesso), e a tratti demotivato (a tratti, giusto).

Rabbia, dunque. Se c'è qualcosa che si sposa in maniera sublime con stress, stanchezza e demotivazione è la rabbia, cazzo. Di quella che esplode senza grande preavviso, acuta e impotente, quindi frustrata, spesso recriminante.

Ci sono periodi buoni e periodi meno buoni, e in genere in quelli meno buoni mi capita di perdere la calma e girare l'interruttore "voce" da "serio professionista empatico ed affabile" a "cantante rock incazzato". Sono due voci molto, molto diverse. E sono tutt'e due profondamente mie. La seconda fa la sua discreta figura, in quei pochi, piccoli locali brianzoli che ancora hanno il coraggio di far suonare gruppi rock che osano mettere in scaletta un 80% di sconosciutissimi pezzi propri. Devo ammettere che suona però essere profondamente fuori luogo in una rianimazione. Perché purtroppo i cantanti, anche quelli non straordinari, sanno come dare volume, e a volte la cosa ci scivola un po' di mano, e ci ritroviamo a sommergere di decibel che neanche Dallara.
Nel corso degli anni mi è capitato di usare quella voce durante discussioni con colleghi, personale di supporto, coordinatori infermieristici, responsabili di area dipartimentale, medici, tecnici, "primari" di reparto e - due volte, perché sono recidivo - direttori di dipartimento.
Mi arrabbio. Non offendo, perché offendere è stupido (e anche pericoloso). Ma qualche volta impreco, anche di brutto. Non è tanto quel che dico: se lo dicessi usando la voce uno (serio professionista empatico e affabile) suonerebbe persino ragionevole, cazziemmerde a parte. E' che porcaputtana, lo sparo a palla. Va oltre le mie intenzioni, giuro. Ma mi accorgo che sto praticamente gridando solo quando ormai lo sto già facendo da un po'. E a quel punto continuo, checcazzo: non posso mica tornare giù di due ottave (e ottanta decibel) a metà frase. QUELLO CHE STO DICENDO, E TE LO DICO DA ANNI, E' CHE ABBIAMO QUESTI PROBlemi perché non abbiamo personale di supporto. Visto? Decrescente non ha senso.  Mi dimentico per un attimo che attorno a me ci sono esseri umani in precario equilibrio emodinamico, sparo i miei decibel, e quelli vedono un pazzo che urla. E sentono che grida qualcosa sul fatto che lui ha bisogno di supporto. Per quel che ne sanno loro, supporto psicologico o psichiatrico, direi. Quello stesso pazzo che urla, dieci minuti dopo, ha girato l'interruttore sulla voce uno (serio professionista eccetera), impugna una siringa e si avvicina al malato mostrandogliela. A quel punto il malato si ipertende, chiaro.

Ora: a me fare la figura del pazzo non piace, davvero. E mettere a dura prova le anastomosi che il chirurgo ha confezionato sulle coronarie del malato mi piace ancora meno. Quindi in genere, dopo aver sbroccato in reparto (mi capita circa due volte l'anno) passo alcuni giorni a tormentarmi per quanto sono stato coglione.

E' che sono stanco e stressato, e a volte demotivato. E a volte m'incazzo, gente. Scusatemi, ecco.

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