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venerdì 14 ottobre 2016

L'ultima domanda dell'esame di maturità (Dario Fo).

Ho sostenuto l'esame di maturità a ventuno anni suonati. La mia carriera scolastica non è stata delle migliori. Avevo i miei problemi, al tempo. Avevo cambiato scuola in prima superiore, e avevo perso un anno. E insomma, questo ci sta, dai. Negli anni seguenti ero stato rappresentante in consiglio d'istituto. Per quattro anni. Membro della consulta provinciale degli studenti, membro della consulta regionale. Giornalisti che chiamavano a casa e chiedevano a mia madre di poter parlare con me, e quella poveretta si tormentava chiedendosi cosa avessi combinato ancora una volta. Avevo viaggiato a spese del ministero della pubblica istruzione per partecipare a congressi, dormito a sbafo in hotel a quattro stelle (!!!) a diciassette anni, e partecipato ad interminabili incontri con presidi, provveditori, funzionari del ministero. Mi piaceva impegnarmi. Mi piaceva sentirmi dire che ero un ragazzo sveglio. Cercavo di fare del mio meglio.
Poi le cose sono andate a puttane, in un momento imprecisato tra il 1995 e il 1996 (balle: so esattamente quando sono andate a puttane, ma non è il momento per scriverne), e durante il quarto anno non ho fatto praticamente niente per evitare di farmi bocciare. Il voto di condotta (complici manifestazioni, autogestioni e contrapposizioni anche accesissime con alcuni docenti) aveva giocato il suo ruolo. Il fatto che in quel momento non  me ne fregasse semplicemente un cazzo dà un'idea di quanto possa essere coglione uno a quell'età. Ero arrabbiato, e in quegli anni la rabbia era fine a sé stessa.
Ero arrivato in quinta con la fama comprovata del rompicoglioni consolidato, ed ero stato ammesso agli esami di maturità con il giudizio più basso fra tutti gli studenti (appena sufficiente). Al tempo la commissione esaminatrice - a parte il famigerato membro interno, che nel caso specifico era la mia docente di inglese - era esterna, presieduta da un presidente esterno: non mi conosceva nessuno, insomma, e hanno dovuto valutarmi sulla base del mio orribile curriculum e sulla base delle prove scritte e orali che avevo sostenuto. E quindi l'ho sfangata: mi sono diplomato con 54/60. Per dire: la secchiona della classe è riuscita a strappare giusto un 50/60. L'ultima volta che l'ho vista, davanti ai tabelloni dei risultati, piangeva. Un po' mi spiace, ma non è colpa mia se lei aveva sempre studiato come una fogna, senza mai capire un cazzo. Io non studiavo granché, ma ragionavo. E soprattutto avevo l'abitudine di leggere voracemente praticamente tutto quello che mi passava sottomano. Quello era un esame di maturità, ed io ero maturo. Quasi marcio, direi.

E Dario Fo? Cosa c'entra con questo pacco  qui sopra?

C'entra, c'entra.

I commissari esterni mi avevano interrogato sulle due materie. La seconda era letteratura. Quando il docente aveva finito di farmi le solite domande su Foscolo e Leopardi (francamente non ricordo cosa mi avesse chiesto, ma insomma, più o meno...) il presidente della commissione mi aveva fatto l'ultima domanda: so che non è compreso nel programma, ma vorrei sapere che cosa ne pensa del nobel a Dario Fo.

Avete presente quando crolla una diga? Ecco. Io Dario Fo lo adoravo. Non l'ho mai visto dal vivo, ma l'ho letto molto. Ripetutamente. Ho parlato per un quarto d'ora. Ho parlato di Franca Rame e del peso del suo lavoro sull'opera di Fo. Ho sostenuto che la grandezza del Fo attore costringe gli attori che mettono in scena le sue  opere a scimmiottarlo, il più delle volte maldestramente. Ho sostenuto che il nobel premiasse l'artista inimitabile, dall'enorme talento istrionico, più che l'autore di prosa. Ho sostenuto che il nobel fosse andato a premiare l'uomo che era riuscito ad usare l'arte del teatro per costruire consapevolezza sociale, politica e culturale nel pubblico, andando a demolire, coprendole di ridicolo, le ottuse operazioni di propaganda religiosa e di stato (morte accidentale di un anarchico e mistero bufo su tutte).

Immagino che al presidente la mia opinione non sia dispiaciuta. 54/60, ripeto. E partivo da appena sufficiente.

Grazie, Dario, e addio.



giovedì 19 maggio 2016

La rabbia.

Il mio lavoro è un casino. Premessa necessaria. Col fatto che è un casino intendo dire che è un casino. Fare il mio lavoro vuol dire trovarsi in situazioni tesissime, drammatiche, a forte impatto emotivo. Avete mai preso in mano il cadavere di un bambino di quattro anni accoltellato dalla madre? Io sì. E ho pianto, perché lì non c'è distacco professionale che tenga, gente. Ogni tanto qualcosa ti tocca, e tu vacilli. Ti chiedi se vuoi davvero continuare a farlo. A volte ti chiedi se PUOI, continuare a farlo. Se ne vale la pena, continuare a farlo. Vita sociale a puttane, bioritmi sfasati da multiple notti di lavoro consecutive, salari ignobili, malati deliranti che ti graffiano, mordono e picchiano mentre cerchi di continuare a farli respirare, gravose responsabilità, grande carico di lavoro, dato che dobbiamo sostituire in tutto anche le figure di supporto che sono ovunque scarse o inesistenti, zero prospettive di carriera. Domani, a quest'ora, avrò finito di trascorrere in rianimazione il mio settimo giorno di lavoro consecutivo, 56 ore totali. Il mio contratto dice 36.
Ho 39 anni, mal di schiena, male alle ginocchia, sono insonne, mangio spessissimo una sola volta al giorno, per la gioia della mia gastrite e delle mie due fottute ulcerette esofagee. Quando sei dentro ad un frullatore è inutile cercare di mettere ordine. Mangio quando ho fame, dormo quando ho sonno. Se sto lavorando ed ho sonno, invece, caffè. Tanto. Sempre sia lodato.

Ecco, questa era la premessa: sono stressato (sempre), stanco (spesso), e a tratti demotivato (a tratti, giusto).

Rabbia, dunque. Se c'è qualcosa che si sposa in maniera sublime con stress, stanchezza e demotivazione è la rabbia, cazzo. Di quella che esplode senza grande preavviso, acuta e impotente, quindi frustrata, spesso recriminante.

Ci sono periodi buoni e periodi meno buoni, e in genere in quelli meno buoni mi capita di perdere la calma e girare l'interruttore "voce" da "serio professionista empatico ed affabile" a "cantante rock incazzato". Sono due voci molto, molto diverse. E sono tutt'e due profondamente mie. La seconda fa la sua discreta figura, in quei pochi, piccoli locali brianzoli che ancora hanno il coraggio di far suonare gruppi rock che osano mettere in scaletta un 80% di sconosciutissimi pezzi propri. Devo ammettere che suona però essere profondamente fuori luogo in una rianimazione. Perché purtroppo i cantanti, anche quelli non straordinari, sanno come dare volume, e a volte la cosa ci scivola un po' di mano, e ci ritroviamo a sommergere di decibel che neanche Dallara.
Nel corso degli anni mi è capitato di usare quella voce durante discussioni con colleghi, personale di supporto, coordinatori infermieristici, responsabili di area dipartimentale, medici, tecnici, "primari" di reparto e - due volte, perché sono recidivo - direttori di dipartimento.
Mi arrabbio. Non offendo, perché offendere è stupido (e anche pericoloso). Ma qualche volta impreco, anche di brutto. Non è tanto quel che dico: se lo dicessi usando la voce uno (serio professionista empatico e affabile) suonerebbe persino ragionevole, cazziemmerde a parte. E' che porcaputtana, lo sparo a palla. Va oltre le mie intenzioni, giuro. Ma mi accorgo che sto praticamente gridando solo quando ormai lo sto già facendo da un po'. E a quel punto continuo, checcazzo: non posso mica tornare giù di due ottave (e ottanta decibel) a metà frase. QUELLO CHE STO DICENDO, E TE LO DICO DA ANNI, E' CHE ABBIAMO QUESTI PROBlemi perché non abbiamo personale di supporto. Visto? Decrescente non ha senso.  Mi dimentico per un attimo che attorno a me ci sono esseri umani in precario equilibrio emodinamico, sparo i miei decibel, e quelli vedono un pazzo che urla. E sentono che grida qualcosa sul fatto che lui ha bisogno di supporto. Per quel che ne sanno loro, supporto psicologico o psichiatrico, direi. Quello stesso pazzo che urla, dieci minuti dopo, ha girato l'interruttore sulla voce uno (serio professionista eccetera), impugna una siringa e si avvicina al malato mostrandogliela. A quel punto il malato si ipertende, chiaro.

Ora: a me fare la figura del pazzo non piace, davvero. E mettere a dura prova le anastomosi che il chirurgo ha confezionato sulle coronarie del malato mi piace ancora meno. Quindi in genere, dopo aver sbroccato in reparto (mi capita circa due volte l'anno) passo alcuni giorni a tormentarmi per quanto sono stato coglione.

E' che sono stanco e stressato, e a volte demotivato. E a volte m'incazzo, gente. Scusatemi, ecco.

mercoledì 6 aprile 2016

La Piramide (the 99%) - [post di assoluti cazzi miei]

Come dice il titolo qui sopra, questo è un post di assoluti cazzi miei. Sono possibili (anzi, direi plausibili) divagazioni apparentemente prive di senso, ma di fondo tutto gira attorno ad un fatto di cronaca (a riguardo del quale forse più sotto mi ricorderò di mettere un link. Forse.) e ad una canzone, scritta un annetto fa, che abbiamo finito di registrare in questi giorni (io mi sono occupato, nell'ordine, di cercare una melodia cantata che poggiasse sul pezzo di chitarra che Andre aveva registrato e inviato al gruppo, scriverci sopra un testo che cercasse di avere un significato, e smarmellare la mia Tele a panno di daino durante le prove e i concerti. Ho specificato "durante le prove e i concerti" perché lì Andre non può suonare tutte e due le chitarre, non ha mica quattro braccia. Quando si registra però non ci sono limiti, e infatti ha inciso tipo ventordici tracce di chitarra, e abbiamo dovuto picchiarlo per farlo smettere.

Scherzo. Ci pesterebbe tutti e tre, credo.

Comunque. La canzone, appunto, si intitola "La Piramide (the 99%)", e il testo cerca di dire che non c'è niente da fare, signori: quella della piramide è la struttura che caratterizza e ha caratterizzato praticamente ogni società umana, da sempre. C'erano i servi della gleba, che lavoravano in cambio della mera sussistenza? Oggi abbiamo gli schiavi del mercato, i lavoratori poveri, che lavorano per la mera sussistenza. C'erano gli imperatori e i vassalli? Oggi ci sono i grandi del mercato. E abbiamo le leggi, del mercato. Il che spiega la presenza degli schiavi, del mercato. E spiega la presenza di un piccolo, splendente 1% apicale che regna sempre. Che ci sia guerra o che ci sia pace, che ci sia prosperità o che ci sia carestia, che si viva in una società tecnologica o che si viva in una società arcaica, quell'1% possiede sempre una fetta impressionante del tutto, quale che sia il valore che si attribuisce a quel "tutto".

E noi, il 99?
Noi facciamo quello che è proprio della nostra razza. Quello che da sempre ha caratterizzato ogni impero: lavoriamo per la piramide, dentro la piramide, e non la vediamo nemmeno.

Con tutto il coraggio che abbiamo
con tutta la forza che abbiamo
con tutte le cose stupende
che forse un domani faremo
Con tutto il coraggio che abbiamo
restiamo in disparte a guardare
che non ce ne importa, c'è il mutuo, c'è il pane
c'è da lavorare
c'è da guadagnare
c'è molto da fare.

Il tutto rock, con influenze reggae nella prima parte. E un bridge (il testo è quello qui sopra) che mi piace moltissimo.

Ecco. Mi piace moltissimo.

La buona notizia è che a quasi 39 anni ho ancora voglia di scrivere canzoni, di tirarmi fuori di casa e fare le prove sino a mezzanotte, tornare a casa almeno all'una e, Anubi Marcio, prendere con filosofia il fatto che il giorno dopo la sveglia suonerà alle cinque e mezza del mattino.
La cattiva è che, se a vent'anni non riuscivo a scrivere canzoni che non fossero intrise di pessimismo post adolescenziale, a quasi 39 non riesco a scrivere canzoni che non siano intrise della disperata disillusione dell'adulto.

Scherzo. Non ho mai smesso di scrivere minchiate, ma quelle sono un'altra cosa. Cantare

"Ho i genitali penduli
Lo so che sono splendidi
Ed anche molto erotici:
Li ha progettati Iddio, li disegnò proprio così.

Ma pur essendo splendidi
I genitali penduli
han la tendenza a pendere
e quel che pende prende dentro, e Dio vuole così"

va bene ad ogni età. La canzone si intitola "Genitali Penduli", e mi fu inspirata da un incidente occorsomi quattro anni fa mentre cercavo di usare un lavandino per lavarmi il culo (barbari, quei popoli che misconoscono il sacro rituale della lavata di culo post defecazione). Voglio dire, ero già un disilluso trentacinquenne, ma lo spazio per le minchiate l'ho sempre avuto.

Tipo:

"Io ti amo e non lo nego
non potrei farti del male
ma ora spogliati, ti prego, o comincio a urlare
e a gridare",

seguita dal magnifico ritornello

"E allora mettila sul sesso
ora donami un amplesso
poi ritornerò di nuovo
dolce e buono come sono".

Ecco, questa l'ho scritta a diciotto anni. Ma è un evergreen. Va bene ad ogni età. A diciotto anni ero intimamente convinto di essere uno sfigato di proporzioni indicibili. Ma avevo spazio per le minchiate, e il testo qui sopra lo dimostra direi egregiamente. Non mi ero ancora accorto che il mondo fosse pieno di esseri umani di sesso femminile disposte a scoparmi, ed ero segretamente convinto che sarei morto vergine, frustrato da limoni infiniti che non arrivavano mai al Tanto Agognato Pompino. Poi ho fatto l'animatore in un villaggio turistico, e ho fornicato più in quei quattro mesi che in qualsiasi altro periodo della mia vita. Per quanto prediligessi le coetanee (che però potevano mandarti in bianco), scoprii presto che belle e simpatiche signore in vacanza col bimbo e col marito in città (cioè navi scuola dalla notevole esperienza e con una voglia di carne fresca da far spavento) potevano regalare ricordi (tuttora, un paio di volte ho creduto di morire) indelebili. Ma a quel punto la canzone (che è ovviamente demenziale, e che contiene perle tipo "non lo senti tu il richiamo? E' normale, essere umano... ano ... ano") era stata scritta, e lì è rimasta. Per fortuna non la conosce nessuno, perché un po' me ne vergogno anche.

Tornando a La Piramide: dicevo, l'abbiamo finita di registrare in questi giorni. Dato che l'ultima volta abbiamo bruciato quattro ore di sala prove (nel pomeriggio ho cominciato a starnutire. Voce nasale, registrazione inascoltabile) abbiamo rifatto le voci a casa mia, giù nella stanzamarcia-tavernetta dalla quale scrivo. Ho urlato un po', ma i vicini non si sono lamentati. Non ancora, quantomeno.
Tra un paio di mesi, quando Andre avrà finito di smanettarci, tornando su questa pagina dovreste persino riuscire ad ascoltarla.

Ah. Il fatto di cronaca, che tira in ballo qualche membro di quell'1%: da Repubblica e da Il Fatto.

Fine divagazione.





domenica 28 febbraio 2016

Trecento euro al giorno.

Lui ha più o meno la mia età, ma questi quarant'anni scarsi se li trascina addosso davvero parecchio male.

Non gioca a favore del suo aspetto fisico il fatto che sia ancora gonfio come una zampogna, ma quella non è colpa sua, intendiamoci: non si esce benissimo da una endocardite batterica (cioè un'infezione dentro il cuore) che ti smangia via la valvola aortica e danneggia la valvola mitralica. Ecco, perché è ancora gonfio come una zampogna.

(attenzione: qui sotto un breve ma verboso spiegone - giuro, privo di tecnicismi - che potete saltare a piè pari)

La valvola sulla quale beatamente vegeta l'infezione non funziona più come dovrebbe, quindi la metà sinistra del cuore non riesce più a pompare nelle arterie tanto sangue quanto la metà destra ne pompa verso i polmoni. C'è un ingorgo, e questo innesca una valanga di casini. Per farla breve, i polmoni diventano via via pesanti come delle spugne bagnate, respirare diventa difficile, i piedi si gonfiano sino a sembrare dei cotechini, l'addome si gonfia di acqua, il gioco alterato delle pressioni all'interno delle camere cardiache va a pregiudicare il funzionamento della valvola mitralica, l'ingorgo nei polmoni conseguentemente peggiora, e a questo punto in genere si muore sputando schiuma rosa dalla bocca e dal naso, o il cuore si ferma all'improvviso, e tanti saluti.
Se non interviene Santa Scienza, intendo.
Perché quando Santa Scienza entra in campo le cose cambiano. Amo vivere nel ventunesimo secolo, gente.

(fine della roba inutile)

E certo non si esce, almeno nell'immediato, granché in forma da un intervento di sostituzione della valvola aortica con una protesi, più una plastica della valvola mitralica. Ne è uscito vivo, e tanto basta. Santa Scienza e Santissima Esperienza hanno guidato le mani dei medici dell'ospedale in cui è stata fatta la diagnosi, quelle di chi ci ha trasferito e portato vivo il malato, quelle dei chirurghi che lo hanno operato, quelle degli anestesisti che lo hanno mantenuto sedato e curarizzato - ma soprattutto vivo - prima, durante e dopo l'intervento, quelle dei perfusionisti in sala operatoria e quelle degli infermieri in sala e in rianimazione. Decine di professionisti hanno riversato contemporaneamente su di lui un cumulo complessivo spaventoso di Santissime Scienza & Esperienza, e quindi è vivo. Gonfio come una zampogna, dicevo, ma vivo.

Brutti tatuaggi irregolari sparsi un po' ovunque. Denti cariati e spazi vuoti si equivalgono, in bocca. Vene indurite sulle braccia, perché le pere, dice, e intende l'eroina in vena, se le è fatte solo per quattro mesi. Ma poi lo lasci parlare, e ti dice che lui in vena si è sempre fatto la cocaina. Che l'eroina ha cominciato ad usarla per rimettere i piedi a terra, perché cazzo, con la coca in vena vedi i draghi, vedi.
E' simpatico. Un disgraziato, ma è simpatico.
Penso al suo dosaggio di metadone, piuttosto elevato (non usa eroina da dicembre, dice, e la sua dose di metadone, dopo due mesi, è ancora di ottanta milligrammi al giorno), e dato che sono un figlio di puttana cerco di incastrarlo. Gli chiedo se davvero ha usato eroina per soli quattro mesi, e lui con aria innocente specifica che per quattro mesi si è fatto le pere. Ma che la fuma sulla stagnola da dieci anni.
E lì rido, e lui ride con me, ed è persino quasi un bel momento.
Gli chiedo se si disinfettava la pelle, prima di pungere. Lui dice di no. Gli dico che allora può anche darsi che il batterio che lo ha quasi ucciso sia entrato così, nel sangue. Lui mi dice che ha sempre usato siringhe pulite. Cioè, nuove, mi dice quando mi vede spalancare gli occhi sul "pulite". Perché intendiamoci: tutto ciò che non è sterile non è abbastanza pulito: si tratta di entrare in una vena, ideale terreno di coltura per batteri opportunisti che quando si ritrovano a sguazzare nel sangue fanno come i gremlins quando li bagni dopo mezzanotte. Gli dico che serve a poco, comunque, avere un ago sterile, quando è la pelle ad essere contaminata. Nel suo caso, contaminata da un batterio fecale. Che finché rimane nell'intestino non ci fa niente, e finché rimane sulla pelle neppure. Ma se si ritrova nel sangue sono cazzi acidi.
Finisce che gli insegno il modo giusto per disinfettarsi. Lui mi dice che tanto non si bucherà più. Ci mancherebbe altro, gli dico. Però gli spiego lo stesso, e lo faccio nell'ottica della riduzione del danno. Spero di no, ma giusto nel caso che, ecco.
Gli chiedo quanta ne usasse al giorno. Lui fa spallucce (tenta, di farlo, ma si ferma, perché si ricorda di avere lo sterno segato in due per il lungo e poi rimesso assieme da dei punti metallici) e dice boh, sui cinque grammi.
Minchia, dico io.
Cinque ma anche di più, dice lui. Quando ce l'hai te la spari finché non la finisci.
Spaventoso, dico io, che intanto cerco di calcolare quanta eroina al giorno fanno, cinque grammi di merda marroncina da strada, con tagli almeno del 60% con salcazzo cosa. Fa più o meno due grammi di eroina al giorno. Non male, se considerate che con meno di cinquanta milligrammi di morfina, che equivalgono a circa venti milligrammi di eroina, si può tenere a bada il dolore di un uomo di ottanta chili (che si sveglia con lo sterno aperto e ricucito, tre drenaggi che s'infilano tra le costole, un tubo in trachea, un sondino dal naso allo stomaco, un catetere nel pisello, un catetere in una arteria a piacere, eccetera eccetera) per 24 ore. Quindi circa venti milligrammi al giorno contro DUEMILA milligrammi al giorno. Rendo l'idea?

Tra coca e ero spendevo trecento euro al giorno, mi dice.
Si guarda le mani, poi guarda me, e mi dice che ha fatto fuori un patrimonio.
Io sono un ex contabile, e a questo punto ho già cercato di calcolare a mente quanto fa 300 euro per 365 giorni, ma ci ho già rinunciato. Comunque a spanne fa 110.000 euro.
Vivevo in un attico, mi dice.
Poi sono andato a vivere da un mio amico.
Poi lo hanno arrestato. E sono rimasto da solo a casa sua. E pensavo solo a farmi. Non mangiavo.
Poi ho tentato il suicidio bevendo tutto il metadone del mio amico, cinque boccette, ma mi sono solo addormentato.
(e ci credo, ho pensato io. Se io dovessi bere una sola boccetta probabilmente mi addormenterei, andrei in arresto respiratorio e tanti saluti, suicidio riuscito. Se uno si fa DUEMILA milligrammi di eroina al giorno (a star bassi) mi aspetto che seicentoventicinque milligrammi di metadone gli facciano giusto da ninna nanna).
Poi ha chiamato sua sorella, che se lo è preso in casa e lo ha portato al SERT. Ha cominciato col metadone, ma ogni tanto aveva i brividi, gli veniva la febbre. Poi sua sorella ha visto i piedi gonfi, e lo ha portato in ospedale.
Ringrazia tua sorella, gli dico.

Vi ringrazio tutti, mi dice lui, e ci tiene a stringermi la mano.



Ogni giorno ho a che fare con esseri umani che si trovano ad affrontare un periodo di estrema fragilità. I più, quando va tutto bene, hanno una vita alla quale tornare. E vogliono tornare a viverla, quindi sono motivati: prendono sul serio quel che gli si dice di fare, si impegnano nel farlo. Sono complianti, detto nell'orribile gergo ospedaliero.
Quando alla fragilità delle condizioni cliniche si sommano le fragilità psicologiche della persona, quando mancano le motivazioni che compensano il dolore fisico che inevitabilmente si deve sopportare durante le primissime fasi della riabilitazione (quando fa male tossire, quando fa male soffiare, quando fa male inspirare profondamente, quando si è stanchi e non si vuole stare seduti nel letto o in poltrona), il problema è quello di trovare una motivazione.
E non so dove e come un tossico che si è rovinato la vita, che si è giocato il lavoro e la casa, che si è rovinato economicamente, possa trovare la voglia e la forza di tornare a fare la propria vita, ma lui il modo lo ha trovato. Si vede.

Quindi faccio il tifo per lui, ecco.