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mercoledì 19 giugno 2013

Infermiere, dodici anni dopo.

Dodici anni fa, giovane adulto più o meno imberbe, avevo da poco finito di regalare i miei dieci mesi di servizio civile allo Stato, e cercavo di capire che cosa sarebbe stato bene (o forse soltanto meglio) fare da grande.
Avevo trovato un impiego come metalmeccanico in una azienda brianzola che produceva (e a quel che mi risulta ancora produce) sistemi di allarme. La Brianza pre-crisi era un tessuto produttivo affamato di manovalanza, quindi, nonostante vantassi una esperienza praticamente nulla nel campo (avevo una maturità da analista contabile in tasca e avevo precedentemente lavorato come contabile) ero stato immediatamente assunto a tempo indeterminato. Un mese di prova attraverso Adecco, poi la firma del contratto. Sì, lo so, adesso sembra fantascienza, ma allora era più o meno la norma: se uno dimostrava di essere in grado di lavorare seriamente (ed io lo avevo dimostrato) in modo produttivo (ed io ero in grado di farlo) ti arrivava la proposta di assunzione, era scontato. Ed era scontato che uno firmasse, così, senza nemmeno festeggiare, perché avere un lavoro (fisso) a 24 anni, nel 2001, in Brianza, era cosa assolutamente normale.
Nel giugno del 2001 avevo già deciso che non avrei fatto il metalmeccanico a vita. Intendiamoci: il lavoro non era male, i colleghi erano persone a posto, l'ambiente era buono, la paga era decente (in lire, sfiorava il 1.800.000 al mese, che  prima dell'euro erano abbastanza), ma io ero stato traviato dal maledetto servizio civile, e avevo deciso di voler fare della mia vita qualcosa che fosse più significativo per me e per la società.

Idiota.

Quindi mi iscrissi al corso di laurea in infermieristica, università degli studi di Milano. L'11 settembre 2001, mentre le torri crollavano a New York, stavo sostenendo il test d'ingresso (il corso di laurea era almeno formalmente a numero chiuso). Diedi le dimissioni da metalmeccanico ai primi di ottobre, qualche giorno prima dell'inizio delle lezioni, e certo il datore di lavoro non mi implorò di restare, ma puttanaeva, me lo chiese. L'azienda è solida, mi disse, se rimani il lavoro non ti mancherà. Ringraziai, ma ormai avevo deciso.

Insomma, per farla breve frequentai le lezioni, sostenni gli esami, feci le mie tremila ore di tirocinio clinico nei reparti, finii i soldi che avevo messo da parte e feci lo studente spiantato. Mio padre fece in tempo ad ammalarsi e morire a 55 anni. Entrai in crisi, smisi di dare esami per un po' e finii fuori corso. Alla fine, con un anno di ritardo sulla tabella di marcia, mi laureai. Cominciai ad esercitare come infermiere dodici giorni netti dopo la discussione della tesi, nel dicembre del 2005: si era in piena emergenza infermieristica, e gli ospedali ti venivano praticamente a cercare a casa (a me telefonò l'ufficio personale di Niguarda, sede della sezione di corso di laurea, due giorni dopo la discussione della tesi. Il tempo di preparare le scartoffie, firmare non mi ricordo più quanti documenti, e cominciai a lavorare). Quattro mesi dopo vinsi il concorso pubblico. Ok. Tutto molto bello.

O forse no.

Ora ho 36 anni, e sto facendo quello che avevo sperato di poter fare dodici anni fa. Lavoro in una terapia intensiva cardiovascolare, i ritmi spesso sono folli, le responsabilità (giustamente) enormi, i turni massacranti. La mia vita sociale, quel poco che ne rimane, è costruita attorno alla vita in reparto. Ogni tanto la gente mi muore letteralmente sotto le mani, ed ho imparato a farmene una ragione. Ho imparato ad assistere alle tragedie altrui senza farmici coinvolgere emotivamente. Si chiama distacco professionale, e comincio a pensare che sia una sorta di malattia psichiatrica.

Amo il mio lavoro? Sì, in qualche modo lo amo ancora. Lo amo quando vedo una persona tornare a vivere. Lo amo quando vedo qualcuno tornare in piedi dopo uno o due mesi di rianimazione. E lo amo anche quando indosso i guanti, accanto ai miei colleghi infermieri, agli anestesisti e ai cardiologi, attendendo che le porte dell'ascensore si aprano e che l'equipaggio dell'elisoccorso porti in reparto una persona in condizioni estremamente gravi. Ma quella è adrenalina, è un altro discorso.


In questi dodici anni amore e odio si sono contrastati a vicenda a lungo, però, e spesso ormai l'odio prevale.

Odio il mio stipendio. Con tutto il rispetto per gli operatori ecologici che si occupano di raccolta differenziata, il mio lavoro sui turni, di notte, nei festivi, con responsabilità civile e penale di quel che accade al malato, viene pagato praticamente quanto il loro. E se togliessimo dal computo i turni, i festivi e le notti verrei pagato meno di loro. Lo so perché un mio lontano cugino fa l'operatore ecologico (miocuggino), e quando mi ha detto quanto guadagna ci sono rimasto un po' male. Per me, perché per lui ero sinceramente contento.
Da contabile, sul finire degli anni '90, guadagnavo circa 2.300.000 lire al mese. Fatti i conti (il cambio nominale non significa nulla, e chi ha vissuto da adulto il primo anno dopo l'introduzione dell'Euro lo sa benissimo) guadagnavo di più allora, da semplice diplomato.
Dite: ma guadagni 1.550 Euro al mese, con quella cifra si sopravvive. Certo, che si sopravvive. Ma a questo punto conviene andare a tirare su il cartone da terra dalle sette alle tredici, domenica esclusa. Il cartone non muore, non sanguina, non ti passa malattie infettive, non si butta giù dal letto perché è disorientato, non ha parenti che ti querelano o che minacciano di farlo. Chi raccoglie il cartone non è iscritto ad un inutile collegio professionale che ti chiede di pagare la dannata iscrizione obbligatoria per legge. Chi raccoglie il cartone non è obbligato all'aggiornamento continuo a pagamento (nel senso che paghi per poter frequentare dei corsi). E se volete vado avanti.

Odio chi mi confonde con un cameriere. Lo scrivo con tutto il rispetto per i camerieri, naturalmente (l'ho fatto anche io, da studente), ma preparare una limonata a metà pomeriggio (o un latte tiepido macchiato alle tre del mattino) non rientra fra le mie priorità. Non quando la mia priorità è mantenere in vita una persona sedata, curarizzata, intubata, ultrafiltrata, contropulsata e con tanti di quei farmaci in infusione continua che la postazione sembra un alberello di natale, intesi?

Odio chi mi dà del lei, chi mi chiama dottore (vaccaeva, io sono dottore, o almeno così recita il pezzo di carta rilasciatomi dall'università) e poi, non appena lo informo che sono un infermiere e non un medico, passa con scioltezza a darmi del tu. Mentre io continuo a dargli del lei, perché sono abituato a dare del lei alle persone che non conosco, quale che sia il lavoro che fanno.

Odio i medici (fortunatamente non molti) che pensano che io sia lì ad assistere loro, e non il malato. Attaccatevi da soli le vostre etichette, compilate da soli le vostre richieste e mettetevi a posto da soli le vostre cartelle, io non vi chiedo di fare un pezzo del mio lavoro. E non ho intenzione di fare un pezzo del vostro. A meno che non siate nella merda fino al collo e che non mi chiediate una mano, s'intende, ma in quel caso pretendo reciprocità. Odio i medici che vanno a dormire di notte e che diventano scorbutici se li si chiama alle tre del mattino: un metalmeccanico che fa il turno di notte non tira fuori la sdraio alle undici, ok? Siete al lavoro, come me. Siete pagati, più di me. State svegli, come me. Fra i miei obiettivi non c'è quello di infastidirvi tormentandovi con delle sciocchezze, quindi se vi chiamo c'è un motivo, il motivo è valido, e voi dovete prendermi dannatamente sul serio.

Odio rendermi conto ogni giorno di più che politici, giornalisti e amministratori (e di conseguenza la stragrande maggioranza dei concittadini) non hanno la più pallida idea di che cosa significhi fare il mio lavoro. Portantini, ausiliari, OSS, ASA e infermieri per il senso comune sono esattamente la stessa cosa. Il che è un po' come confondere ingegneri e geometri, dottori commercialisti e ragionieri, fisioterapisti e massaggiatrici da centro massaggi orientale (io poi dale bacio). Io sono un professionista, non un garzone tuttofare. Sono il responsabile dell'assistenza, e non perché lo dica io: lo prescrive la legge. C'è gente (OSS, ASA, ausiliari) che lavora sotto la mia diretta responsabilità. Non sono un portapadelle, un vuotapappagalli e un pulisciculo. L'assistenza di base (lavare sederi sporchi è un atto nobile, fondamentale per la salute del malato, ma è assistenza di base che in teoria sarebbe appannaggio più o meno esclusivo di OSS e ASA) non è il fulcro della mia attività professionale.

Odio il management che anni fa ci diceva "non ci sono infermieri, proprio non se ne trovano, quindi dovete serrare i ranghi ed ammazzarvi di straordinari non pagati, perché purtroppo abbiamo esaurito i fondi messi a budget per gli straordinari", e che oggi ci dice "c'è la crisi, c'è la revisione di spesa, c'è il taglio dei trasferimenti, quindi non possiamo assumere i 30.000 infermieri precari o disoccupati che ci sono in Italia, e quindi vi ritocca serrare i ranghi e ammazzarvi di straordinari, naturalmente non pagati perché non ci sono i fondi per pagarvi". Odio quando poi si viene a sapere che il management si è appena spartito un quarto di milione di euro di incentivi perché (loro!) hanno "raggiunto gli obiettivi". Odio quando glielo fai notare e loro ti rispondono con una scrollata di spalle che "si tratta di capitoli di spesa diversi".

Odio la produzione scritta infermieristica, gli stilemi imparati a memoria e ripetuti a pappagallo (spesso fuori contesto), la sintassi traballante e la grammatica creativa, gli accenti messi a cazzo e i termini usati impropriamente. L'italiano non è l'italiano, scriveva Sciascia: è il ragionamento. Nessuna professione può avere un minimo di dignità sociale finché ci si esprime come dei cazzo di bimbominchia. Eh, sì, questa cosa mi fa proprio incazzare, che volete.

Odio la mancanza di coesione e di consapevolezza di ruolo di buona parte dei miei colleghi, perennemente impegnati a contare i giorni di riposo altrui e a confrontarli con i propri, in lotta continua (ed insulsa) con il turno opposto o con i colleghi del reparto adiacente (come alle medie quando all'intervallo si faceva la guerra tra prima A e prima B), pronti a deglutire amabilmente le cucchiaiate di merda rifilateci di continuo dal management, solerti nel baciare culi a ripetizione convinti che spandere saliva possa servire ad ottenere cose che in realtà sono semplici, fottuti diritti. Odio chi si chiude nel confessionale del coordinatore ed esce giulivo perché "mi ha dato le ferie": coglione, le ferie sono tue, il coordinatore non ti ha concesso proprio niente. E tu sei un povero idiota. Se gli infermieri si battessero per la causa comune, con l'impegno e la determinazione che solitamente incanalano nelle piccole proprie beghe private, saremmo una categoria dall'enorme potere contrattuale. E invece valiamo poco o nulla, nonostante siano le nostre, le spalle che tengono in piedi i reparti e gli ospedali.

Odio non poter scioperare perché sono sempre precettato.

Odio i rappresentanti sindacali che si fanno razzianamente i cazzi propri, che si fanno eleggere per ottenere l'esenzione dalle notti o i turni in 118 (quelli sì, a pagamento, ed infatti in genere il giro che sta attorno al 118 è una cosa che fa impallidire i corleonesi), che svendono il culo dei propri colleghi in cambio di un contentino personale. E ho massimo rispetto di quei colleghi rappresentanti sindacali che, una volta compreso lo schifo del giochino torbido del do ut des all'italiana, danno sdegnosamente le dimissioni dall'incarico, perché comprendono che la propria dignità vale più di trenta denari del cazzo.

Dodici anni dopo forse non lo rifarei, questa è la conclusione. Non perché mi sia stancato di fare il mio lavoro, tutt'altro. Non lo rifarei perché non ne vale la pena. Non ne vale la pena economicamente, e leggere Gad Lerner parlare della "miseria delle retribuzioni del personale infermieristico" come "uno degli aspetti più evidenti dell'ingiustizia sociale" fa solo arrabbiare, perché tanto non c'è speranza che le cose possano cambiare. Non ne vale la pena perché la mia vita sociale è stata quasi completamente demolita dai maledetti turni, non ne vale la pena perché ho la dignità sociale che si riserva ai parìa, non ne vale la pena perché mi ero illuso di fare un lavoro con la gente, per la gente, senza che nessuno ci facesse la cresta, e purtroppo non è così, la cresta la fanno in moltissimi. 

3 commenti:

  1. Ciao, sono una studentessa in Infermieristica e dovrei laurearmi a novembre. Il mio ex compagno è infermiere, così come i suoi genitori, quindi conosco bene la situazione e concordo su tutto ciò che hai detto. In facoltà ci insegnano mille cose belle, per poi buttarci in reparto e trovare il contrario, oltre al fatto che gli stessi tutor violano il codice deontologico con leggerezza estrema (noi studenti = zero dignità, zero rispetto).
    Ho fatto tirocinio in terapia intensiva cardiochirurgica e ricordo bene che una volta un medico mi ha chiamata per alzare la testiera del letto, quando c'era 4 medici intorno al paziente. Ricordo ogni estubazione, ogni pompa siringa con adrenalina e nora, i mille controlli. O ricordo quando un paziente della lungodegenza si lamentava per ore, per poi sorridere in visita al medico e dire "Sto benissimo!".
    Sono una pivella, dirai, non ancora laureata, ma all'università ho davvero sputato sangue e ingoiato rospi giganti.
    Sullo stipendio perfettamente d'accordo. Vedevo le buste del mio compagno, e pensavo alle responsabilità che aveva. E' pazzesco.
    Io spero che qualcuno prima o poi si renda conto della cosa, ma al momento non ho fiducia e mi chiedo come realmente si possa fare per vederci (scusa se già mi metto nei panni che in realtà non vesto) riconosciuto seriamente il nostro lavoro.
    Poi la mia storia è particolarmente lunga, posso solo ripetere che concordo in pieno.
    Ciao.

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    1. Rileggo questo commento a distanza di tempo, Elena. Spero che nel frattempo tu abbia cominciato a lavorare (lo faccio incrociando fortissimamente le dita, eh?), e mi permetto di chiederti: come va? Come ti ci trovi?

      Ciao.

      Anto.

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  2. Sono al secondo anno di infermieristica...e ho diversi parenti che fanno gli infermieri...ho già capito come funziona e sono gia depresso...La situazione non cambia perché si credono tutti dei missionari sacri difensori del.codice deontologico...persino già da studenti...

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